Il volo delle aquile, da Napoleone a Carlo Alberto

Il volo delle aquile, da Napoleone a Carlo Alberto

Spesso i libri di storia innalzano un muro al termine del ventennio napoleonico, quasi volessero perpetuare la damnatio memoriae decretata a Vienna durante l’omonimo congresso del 1814 e 1815. Tale evento rappresentò il reincontro tra gli esponenti dell’Ancien Regime spazzato via prima dal fuoco della Rivoluzione Francese e poi dall’ardore delle armate guidate dal grande corso.


larmata-ditalia-del-vicere-eugenioL’Armata d’Italia del Vicerè Eugenio, 1812


Dopo Waterloo si pretese che l’Europa riportasse il calendario alla fine del ‘700, che tutto riprendesse le norme, gli usi, le abitudini e perfino i colori e gli odori degli anni del buon, ma ingenuo, Luigi XVI. Ma bastavano i documenti, gli accordi, gli impegni e le parole pronunciate od estorte al congresso (tra numerosi e talvolta opposti interessi) a mutare tutto? O meglio a riportare il tempo indietro? Potevano i proclami assolutisti aver ragione dei moti dell’anima e delle coscienze di chi aveva seguito Napoleone per i campi di battaglia di tutt’Europa?

Non bastò accusare l’imperatore d’esser stato un despota sanguinario per imporre questa visione a chi l’aveva amato. La Grande Armata era stata, probabilmente, tra le prime forme di esercito europeo, multietnico, multilinguistico e multiculturale. Vi militarono soldati d’ogni provincia del vecchio continente e coloro i quali sopravvissero alle campagne di quegli anni serbarono memoria delle parole e dei pensieri raccolti a quel tempo. Erano, infatti, andati letteralmente a “scuola di libertà” ed i principi liberali e libertari imparati, ed amati, sotto le insegne dell’Aigle non finirono perduti. Produssero germogli e poi frutto nei molti moti e nelle molte agitazioni, per lo più invocanti costituzioni e riforme illuminate, che si manifestarono in tutta Europa dal 1820 al 1848 almeno.

Non fu da meno l’Italia che vide le proprie popolazioni combattere agli ordini dell’imperatore Napoleone; chi nell’esercito del Regno d’Italia, chi in quello del Regno di Napoli e chi in quello dell’Impero Francese. Molti vi andarono obtorto collo per via della coscrizione obbligatoria e non lo fecero a cuor sereno dovendo lasciare i campi, il bestiame, il lavoro, le famiglie e quel poco che avevano. Altri vi furono, invece, coinvolti con maggiore entusiasmo perché più colti e più preparati e quindi più travolti dalle idee, dai valori e dai fermenti morali del tempo. Tutti furono, tuttavia, accomunati dallo scoprire una nuova identità sotto le armi francesi. Un’identità che prese a risuonare nel grido “Viva l’Italia” sempre più sulle labbra dei soldati combattenti in Germania, Austria, Polonia, Russia e via discorrendo.

Quei soldati, dopo secoli di provincialismo e campanilismo, si scoprirono Italiani per la prima volta. Nel furore della violenza, nel terrore della guerra, nella ricerca di una crescente libertà, essi concepirono l’idea della nuova Italia. Libera, sovrana, unita, indipendente e finalmente padrona dei propri destini. Quelli che da tempi immemorabili venivano calpestati, derisi e soffocati dai mutevoli padroni stranieri di turno. Quando Napoleone abdicò e prese la via dell’Elba, e poi quella più infelice di Sant’Elena, quei reduci dalle insegne gloriose della Legione d’Onore o della Corona Ferrea sul petto, non restarono inoperosi. Moltissimi di loro furono tra gli animatori dei moti del 1820 e 1821, del 1830 e 1831, del 1848, delle imprese del prode nizzardo Garibaldi, della Repubblica Romana e delle Guerre d’Indipendenza. Come non ricordare, tra i moltissimi, il generale Avezzana? Già soldato napoleonico poi combattente con Garibaldi a Roma nel 1849 e nuovamente in linea sul Volturno nel 1860?


carlo-albertoCarlo Alberto


Nel caos carbonaro e ribelle del primo risorgimento fu difficile trovare un filo conduttore per legare le tante anime diverse di quell’idealismo. Il primo a farlo, in qualche modo, fu Carlo Alberto di Savoia quando, dopo i moti milanesi, innalzò, per primo ed unico tra i parrucconi sovrani preunitari, il tricolore nel nome d’Italia. Quando giunse a Milano, il generale Teodoro Lechi, già combattente della Guardia Reale Italiana napoleonica, gli donò le aquile che ornavano le insegne della Guardia sui campi di battaglia di Austerlitz, Jena, Wagram, della Moscova e delle Beresina e di tante altre battaglie. Un dono simbolico, ideale poiché con quel gesto egli, ed i molti reduci degli eserciti napoleonici, riconobbero in lui il continuatore del loro antico sogno italiano. Un continuatore sfortunato ma leale, onesto e fiero al punto di imboccare la via dell’esilio quand’ebbe perduto. Non perse, tuttavia, l’idea che animava quei combattenti e che sopravvisse nelle figure che condussero, con la guida ed il sostegno di Casa Savoia, alla proclamazione del Regno d’Italia nel 1861. Evento salutato dagli applausi di molti uomini che, da Napoleone a Garibaldi e Vittorio Emanuele, avevano concorso al raggiungimento di quel prodigioso risultato. Per cui se è ormai abitudine consolidata sostenere che senza Napoleone non vi sarebbe stata l’unificazione d’Italia, è doveroso estendere questa meritevole considerazione a figure come Carlo Zucchi, come Pietro Colletta, come i fratelli Lechi ed i fratelli Pepe, come Cesare De Laugier, come Silvio Moretti, come Ettore Perrone di San Martino, come Vittorio Ferrero, come Giuseppe Silvati, come Ottavio Tupputi e tanti, davvero tanti altri.

A loro ed alla memoria del loro ruolo dedicai, non a caso, un volume oggetto di una recensione già pubblicata su queste pagine (Sentimento italiano nel ventennio napoleonico).

A. Mella

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